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Giacomo Corna Pellegrini Spandre

Giacomo Corna Pellegrini Spandre

"Quando, alla fine di una galleria di molte centinaia di metri, trovavo due minatori che da ore stavano bucando la roccia con martelli perforatori, per preparare il posizionamento delle mine, mi rendevo finalmente conto di cosa significasse lavorare in miniera."

I ricordi, inediti, di Giacomo Corna Pellegrini (1931-2011), erede della dinastia di imprenditori che per primi scoprirono e avviarono la coltivazione di barite sulle montagne di Darzo, e lui stesso ex amministratore dell'azienda, sono stati raccolti nel 2009. Il titolo che Giacomo aveva scelto per questa sua memoria autobiografica è: "Quelle rocce bianche tra le montagne di Darzo. La baritina: una risorsa di vita tra Valle del Chiese e Val Sabbia".  

Signor Giacomo Corna Pellegrini, Lei che ha amministrato per anni, con suo fratello Piero e suo cugino Gianfranco, l’azienda di famiglia Mineraria Baritina di Darzo, prima di dedicarsi allo studio e all’insegnamento della Geografia nelle Università italiane. Vuole raccontarci la storia di quella attività mineraria avviata dalla Sua famiglia?
Escavazione e lavorazione della barite di Darzo vengono davvero da lontano, almeno nel tempo. Esse sono collegate all’antico impegno, nel settore minerario, della famiglia Corna, del cui inizio si ha notizia alla metà del Settecento, tra le montagne della Val Camonica. Secondo documenti dell’Archivio di Stato di Brescia (Atti del Notaio Rossetti di Breno, filza 807) Il 30 luglio 1746 il “signor Giovanni figlio del quondam domino Pietro Corna di Portirone bergamasco”, abitante a Pisogne in contrada San Marco acquistava dalla signora Veronica vedova del defunto messer Santo Spandri detto Santanello di Pontrasio “Presente et agente come curatrice de suoi figlioli e del detto quondam di lei marito .... una piccola quota del forno del ferro di sopra a Goine di sopra“ in Pisogne ... dietro versamento della somma di 1.100 lire. (Franzoni O., Una famiglia della Valle Camonica tra Seicento e Ottocento, Edizioni Unicopli, Milano, 2002, pp. 89).

La lavorazione del ferro e dei suoi minerali non erano certo una novità in Valle, dove già i Romani e poi la Repubblica Veneta avevano utilizzato quella risorsa. Dalla estrazione e lavorazione di quel metallo, continuata di padre in figlio nella famiglia Corna per un secolo e mezzo, fino al nuovo interessamento per la barite, passò però molto tempo (sempre .... ricorrendosi, tra i vari discendenti della famiglia, i nomi di Pietro, Giacomo e Giovanni! fino a quello del mio nipotino Giacomo, di 5 anni, cui dedico questi ricordi). Ad occuparsi della barite si giunse infatti solo alla fine dell’Ottocento, quando questo minerale (ritenuto un tempo soltanto ganga, cioè di scarto) si riconobbe avere una utilizzazione industriale, nel settore delle cartiere.

Si allargavano così le attività minerarie della famiglia. Erano aumentati, nel frattempo, anche .... i suoi cognomi: Giovanni Antonio Corna, nato a Pisogne, (allora territorio della Repubblica Veneta) il 19 Aprile 1774 era stato infatti al centro di molte novità per la famiglia. I suoi famigliari, dapprima braccianti provenienti da Parzanica, frazione montana bergamasca del Lago d’Iseo, poi trasferiti a Portirone, al bordo del lago come barcaioli, erano divenuti piccoli operatori commerciali a Pisogne, dove transitavano tutte le merci dell’alta Valle Camonica verso la pianura.

Più volte Giovanni Antonio, divenuto abile commerciante e poi piccolo imprenditore minerario, fu Sindaco di Pisogne (come del resto lo fu anche mio fratello Piero, due secoli dopo). Una intensa attività nel commercio e nelle amministrazione pubblica, soprattutto durante la Repubblica Cisalpina, lo resero un cittadino benemerito. Il 9 settembre 1819 Giovanni Antonio sposava la giovane Giacomina Pellegrini Spandri (poi trascritto Spandre), di 23 anni, che gli diede nove figli. Il padre di lei, Giacomo Orazio, aveva ottenuto qualche anno prima, il 7 Marzo 1806, una concessione governativa per lo sfruttamento di una cava di gesso nel territorio di Pisogne, che venne lasciata alla figlia.

Si aggiunsero così, alla famiglia Corna, altre attività minerarie: oltre ai minerali del ferro e alla sua lavorazione siderurgica, l’estrazione del gesso, poi quella della barite, che in buona misura era stata trovata tra i minerali metalliferi di Valle Camonica (Franzoni, ibidem, pp. 102-103). Questa stessa attività sarà al centro, più tardi, delle attività minerarie della famiglia Corna a Darzo, in Valle del Chiese nelle Giudicarie al limitare della Val Sabbia (più avanti anche nel Lecchese e di nuovo in Valle Camonica, durante il Novecento). Nel frattempo, estinguendosi il ramo famigliare Pellegrini Spandre, con la morte della madre Giacomina, su richiesta dei figli Corna, avanzata in data 20 Ottobre 1861, il cognome della famiglia si trasformerà in Corna Pellegrini Spandre, grazie ad apposito regio decreto emesso in data 24 Maggio 1863 (Franzoni, ibidem, pp.79-80).

E a Darzo, quando giunsero i Corna Pellegrini Spandre?
Quasi un secolo dopo, nel 1894, mio nonno Giacomo, uno dei discendenti del trisavolo Giovanni Antonio, avendo avuto segnalazione che anche in Val Sabbia si erano ritrovati affioramenti di barite, giunse tra le montagne di Darzo, un piccolo comune del Trentino, laddove la lombarda Val Sabbia si incontra con la Valle del Chiese. Constatata l’effettiva presenza del minerale nella zona del Doss di Marìgole (o Marìgule), forte dell’esperienza già maturata nel Bresciano, ottenne regolare licenza di ricerca ed escavazione di quel minerale dall’Imperial Regio Governo austriaco, di cui il territorio faceva allora parte. Aveva così inizio la nuova, lunga vicenda mineraria di questo territorio, poi arricchitosi, per iniziative di aziende diverse, anche delle miniere di Val Cornèra e di Pice, sullo stesso versante occidentale della valle, con i rispettivi stabilimenti sul fondo valle, per la lavorazione del minerale.

All’inizio la barite di Marìgole era trasportata a valle con i muli e poi portata con i carri a Vestone, dove la famiglia Corna aveva un mulino a palmenti, azionato dalla forza delle acque di un torrente. Lì il minerale veniva frantumato e macinato, per la vendita alle industrie cartarie e poi, già nella prima metà del Novecento, alle industrie dei colori e delle vernici. Solo successivamente (a partire dalla metà degli anni Trenta del Novecento) venne costruito in più tempi, dai Corna, lo stabilimento di Darzo, proprio ai piedi della teleferica che giunge da Marìgole.

La ditta dei Corna si chiamava allora Giacomo Corna Pellegrini-industria estrazione e macinazione baritina e gessi (solfato di bario e di calcio). Alla morte del nonno Giacomo l’azienda fu ereditata dai figli Camillo (mio padre), Emilio e Vittorio, e assunse il nome Camillo e fratelli Corna Pellegrini-industria della baritina. Dopo l’ultimo dopoguerra, con mio fratello Piero, ingegnere minerario, laureatosi a Bologna e poi specializzatosi nelle miniere sarde, e mio cugino ingegner Gianfranco, divenuti i nuovi proprietari, decidemmo per il nuovo nome Società Mineraria Baritina s.p.a., quale è tuttora.

Signor Giacomo, a cosa serviva allora la barite?
Non è facile dare una risposta esauriente a questa domanda, per i molti e assai diversi impieghi della barite nei più vari campi industriali e addirittura medici, modificatisi spesso nel tempo. Bisogna cominciare col dire che il bario è l’elemento chimico di numero atomico 56, con simbolo Ba. Esso si trova in natura, tra i minerali più diffusi sulla superficie terrestre, soprattutto come Solfato di Bario (Ba SO4), comunemente denominato barite o baritina (inizialmente barote e poi baryta, secondo la definizione che ne aveva dato Antoine Lavoisier, uno dei padri della chimica moderna). Si tratta di un minerale bianchissimo (se puro), di peso specifico molto elevato (4,5 a 20°C), poco solubile e opaco ai raggi X.

Queste caratteristiche lo abilitano ad impieghi molto diversi. Quello forse più nobile è come pappa biancastra da ingerire (per molti con grande fatica) prima di una radioscopia gastro-intestinale. La sua opacità ai raggi X consente infatti di rilevare le problematiche degli organi interni del corpo umano, attraversati dall’intruglio. Per la stessa caratteristica di respingere le radiazioni, la baritina viene anche usata come schermo di impianti radiologici nelle attrezzature ospedaliere.

L’elevato peso specifico della baritina la qualifica invece come fango di perforazione (drilling mud) per pozzi soprattutto di idrocarburi (non c’è bisogno, in questo caso, che sia molto bianca), dove contrastare l’alta pressione interna dei liquidi o dei gas, che talvolta i pozzi presentano. All’impiego abituale nella trivellazione dei pozzi, dove ciò sia il problema, si avvicendano però talora casi drammatici, in cui un pozzo petrolifero si incendi ed esploda. Diventa allora necessario tamponarlo subito con iniezioni rapide e ingenti di fanghi pesanti, che ne blocchino l’attività: la baritina (insieme ad altri componenti) serve appunto ad appesantirli.

Nella Pianura Padana abbiamo spesso vissuto eventi del genere, negli anni Sessanta e Settanta del secolo scorso, per pozzi petroliferi esplosi, dove l’afflusso tempestivo di molte camionate di barite di Darzo (da noi denominata pelio, per il suo impiego petrolifero) contribuì a bloccare più volte l’incendio di un pozzo.

La resistenza del solfato di bario alle intemperie lo ha sempre abilitato anche a costituire una componente essenziale delle vernici, specie quelle esposte agli agenti atmosferici, in particolare nell’edilizia e nelle costruzioni marittime. Naturalmente, in questi casi la colorazione bianca è sempre stata un elemento importante; di qui la necessità di selezionare e distinguere i vari tipi di barite secondo il suo colore, risultando la più pregiata e costosa quella che raggiunge il massimo di bianchezza.

Fino a quando le vernici furono vendute a peso, anche l’alto peso specifico della baritina era una componente valutata dagli acquirenti. Ciò non è più, da quando le vernici sono vendute a volume. Non ha intanto cessato di essere impiegata la barite anche nelle cartiere, soprattutto per carte speciali, quali le carte baritate fotografiche ed altre. Essa è spesso usata altresì nelle industrie dei prodotti per la pulizia della casa, per dare spessore e consistenza al materiale ripulente; nell’industria della gomma e in altre ancora. Come semplice contrappeso viene anche impiegata nei blocchi che sostengono le gru.

La specificità della maggior parte della barite di Darzo è sempre stata quella della bianchezza dei suoi filoni minerari, da cui ricavare materiale macinato (e più recentemente micronizzato) per gli impieghi ove il colore bianco del materiale è essenziale. Ciò ha comportato senza sosta una attenta selezione del materiale secondo il suo grado di colore; problema facilitato peraltro proprio dalle caratteristiche di bianchezza della barite di Darzo e dal più elevato peso specifico della barite stessa, rispetto agli altri minerali con i quali spesso si intreccia, sia nella roccia che nelle discariche industriali. 

Che ricordi ha, signor Giacomo, dei lavori nella miniera di Marìgole?
Proprio la individuazione dei filoni di barite più importanti e più bianchi ha sempre rappresentato il problema principale della gestione della miniera. Un conto erano, infatti, gli affioramenti superficiali; altro discorso risultava e risulta invece capire come essi si interrino nella roccia e come si possa giungere ad essi. Qui subentrano competenze geologiche e di attività mineraria molto specialistiche. I filoni della barite di Darzo hanno infatti, nella montagna, un andamento molto irregolare, legato alla sua formazione in ere geologiche antichissime. Individuare la loro posizione è possibile attraverso lo studio dell’intera formazione tettonica della Val Sabbia e della Valle del Chiese, oppure tentando comunque di avvicinarsi ai filoni baritici con dei cunicoli o con delle sonde. Tutte queste strade sono sempre state seguite.

I cunicoli principali di accesso al minerale della barite di Marìgole sono stati sempre orizzontali, in partenza dal fianco della valle. Ciò è avvenuto su molti diversi piani, tra loro congiunti però da pozzi e fornelli, fino a costituire un complesso intrico sotterraneo, difficile perfino da rappresentare con carte topografiche dei vari livelli. Ogni volta che, da inesperto, ho visitato la miniera di Marìgole, avevo un senso di smarrimento: il buio generale, rischiarato da poche lampade, l’umidità, il freddo e soprattutto la distanza dalla superficie e dalla luce esterna erano tutti elementi di grande fatica da superare. Soltanto la vicinanza di mio fratello Piero o di qualche suo collaborare mi rassicuravano. Ma quelle esperienze furono ogni volta abbastanza traumatiche.

Quando, alla fine di una galleria di molte centinaia di metri, trovavo due minatori che da ore stavano bucando la roccia con martelli perforatori, per preparare il posizionamento delle mine, mi rendevo finalmente conto di cosa significasse lavorare in miniera. Sono state esperienze che non ho più dimenticato. Anche l’esplosione delle volate di dinamite, una volta al giorno, quando tutta la montagna sembrava tremare, è difficile da dimenticare.

La mia prima visita a Marìgole era però stata diversa. Vi ero giunto da ragazzo con il mio Gruppo Scout del Primo Riparto Esploratori di Brescia. Ci era stato concesso, in via del tutto eccezionale, di visitare la miniera; e anzi il nostro Assistente, Padre Luigi Rinaldini (della Pace di Brescia), aveva anche detto Messa all’interno di una galleria, alla presenza di noi ragazzi e di tutti i minatori. Forse qualcuno di loro se ne ricorda ancora .... Su quelle stesse montagne Padre Rinaldini aveva perduto, anni prima, il fratello Emiliano, partigiano delle Fiamme Verdi.

I trenini decouville per trasportare all’esterno il minerale, poi gli impianti della teleferica per il trasferimento a valle, sono l’altra componente importante di una attrezzatura della miniera la cui funzionalità (e il cui costo) sono sempre molto difficili da giudicare. Basta che un filone di barite si restringa e si azzeri in pochi metri di galleria, che tutto diventa sproporzionato e antieconomico. Se accade il contrario è molto bello, ma restano tutti i problemi di sicurezza da garantire, per le persone che vi lavorano, e quelli di costo per la produzione, che variano di continuo, al variare delle condizioni in cui si incontra la roccia, proseguendo l’escavazione. 

Cosa ci può dire delle tecniche usate per coltivare il minerale in miniera?
A questo proposito mi piace ricordare una innovazione tecnico-mineraria attuata da mio fratello Piero per garantire nella miniera, appunto, maggiore sicurezza ai lavoratori, pur recuperando tutto il minerale disponibile. È il sistema della ripiena cementata, consistente, per dirla in parole semplici, nel colmare di cemento ogni zona da cui il minerale viene scavato, garantendo così anche una maggiore solidità alle gallerie di accesso e a quelle contigue.

Della gestione della miniera si è sempre occupato Piero, insieme al responsabile di miniera Gianvittorio Tanghetti e ai capi minatori, che si sono succeduti nel tempo. Ma la discussione sui problemi che essa poneva e sulle modalità per affrontarli la abbiamo affrontata per molti anni tutti e tre i responsabili dell’azienda: Piero, Gianfranco ed io, che a Brescia ci trovavamo ogni quindici giorni, per fare il punto della situazione aziendale. Non erano mai decisioni facili perché, come diceva Piero, dentro la roccia non vede nessuno: bisogna arrivarci, per capire cosa offre. Anche ogni aspetto della lavorazione e della vendita della baritina poneva spesso problemi da risolvere, che abbiamo sempre affrontato con buona armonia.

E nello stabilimento di Darzo, quali erano le lavorazioni?
Lavare, selezionare e macinare la barite era ed è il compito da realizzare nello stabilimento di Darzo: problema tecnico, ma sempre anche problema economico, perché ogni fase della lavorazione deve trovare riscontro con il suo rendimento e con il mercato al quale finalmente è destinata. La barite giunge a valle molto sporca, dai carrelli della teleferica; bisogna lavarla (e per fortuna l’acqua a Darzo non manca), ma occorre anche evitare di inquinare quell’acqua, che poi andrà al fiume Chiese. Esiste dunque un problema costante di filtraggi e depositi, da tenere sotto controllo.

Una volta lavata, la barite in pezzi mostra la varietà della sua colorazione: da quella bianca, purissima, a quella variamente frammista al porfido o ad altri minerali, che la rendono più scura e quindi commercialmente meno pregiata. La selezione, per i pezzi più grossi, può essere fatta a vista dalle operaie cernitrici, che controllano un tappeto rotante sul quale scorre il minerale, scegliendo a mano le diverse qualità.

Altro metodo è invece quello gravimetrico, che si applica per la pezzatura del minerale più minuto. La vibrazione, provocata da appositi cassonetti ove affluisce il minerale, consente di giungere sul fondo al materiale più pesante, che è anche quello che contiene maggiore percentuale di barite, e solitamente è anche il più bianco. Per lo stesso principio avviene la selezione del materiale ancora più sottile e bagnato, che scorre su una lunga tavola a piccole scanalature, detta tavola a scossa.

Selezionati, secondo il colore, i diversi tipi di barite (Suprema, Extra, Prima, Seconda, Terza, Pelio) il materiale viene diviso in magazzini separati, che tali devono restare fino alla macinazione. Questa avviene per giorni interi solo sullo stesso tipo di barite, per garantire la qualità costante del prodotto finale assicurato alla clientela, che sarebbe invece compromessa dal variare continuo dei diversi tipi da macinare.

L’attività principale dello stabilimento è stata però sempre quella della macinazione.
È vero. E anche la macinazione della barite ha subito molte novità, durante il periodo in cui io mi occupavo di venderla in Italia e all’estero. Inizialmente, dopo lo sgretolamento nei frantoi più grossolani, erano a lavorare soltanto i mulini a palmenti, le cui grosse pietre cilindriche, rotanti l’una contro l’altra, dovevano spesso essere sostituite, perché consunte. Dopo una visita compiuta con Piero ad una Fiera tedesca di macchinario minerario, si introdusse il mulino a palle, dapprima uno a cilindri sovrapposti, poi un altro grosso e pesantissimo cilindro di metallo, ruotante su se stesso e contenente grosse biglie di materiale molto più duro della barite. Scorrendo nel tubo stesso, la barite risulta, alla uscita, finemente macinata. I separatori a vento provvedono poi a scomporre quella parte del materiale che richiede ulteriore lavorazione

Problema più delicato si dovette affrontare per realizzare barite micronizzata, cioè a dimensione ancora più fine (fino a 4/5 micron) di quella macinata abitualmente. Ciò si ottiene ormai con getti di pressione potente (fino a 12 atmosfere) su materiale già macinato, che diventa così .... il macinatore di se stesso, avendo alla fine la consistenza quasi del borotalco! Ognuno di questi procedimenti pone problemi tecnici complessi e altrettanti problemi economici, sia per investimenti finanziari nei macchinari che nella gestione e nel controllo dei risultati, ai quali ha sempre dato una generosa, efficiente collaborazione Angelo Delaidini, responsabile dello stabilimento. Alle possibilità di vendita del prodotto deve sempre rapportarsi, ovviamente, ogni problema organizzativo della produzione, ai suoi prezzi di mercato spesso variabili, alla concorrenza italiana e straniera che la barite di Marìgole ha sempre avuto.

Imballo e trasporto della baritina non sono mai stati un grande problema tecnico, ma lo sono stati, talvolta, sotto il profilo dei costi. La maggior parte del materiale viene richiesto in sacchi di carta a più fogli, da 50 chilogrammi, ma alcuni clienti hanno esigenze diverse: dimensioni dei sacchi più piccole, oppure addirittura materiale sfuso, da fornire in appositi sacconi, oppure direttamente in autobotti del cliente. Le spedizioni all’estero, inoltre, hanno spesso richiesto l’imballo della barite in sacchi di juta. Questa varietà di esigenze non era difficile da soddisfare, in se stessa, ma provoca oneri spesso nel magazzinaggio e nella disponibilità della merce.

Una volta macinata e insaccata, come avveniva il trasporto della barite ai clienti?
Il trasporto della barite, nella quasi totalità dei casi è sempre avvenuto mediante autocarri, direttamente dallo stabilimento di Darzo ai clienti; ma nelle spedizioni per l’estero talora avveniva con mezzi ferroviari e si doveva portare la merce alla stazione di Rezzato, vicino a Brescia, dove pure l’azienda aveva un altro stabilimento per la macinazione di altri minerali. La disponibilità dei camion fu altro problema da risolvere, perché quelli direttamente posseduti dell’azienda rischiavano di non essere sempre utilizzati appieno, mentre per quelli noleggiati da autotrasportatori si doveva fare i conti anche con le loro esigenze di utilizzare quei mezzi al meglio.

Il primo camion della nostra azienda fu acquistato subito dopo la fine della seconda Guerra mondiale, dopo una lunga e dolorosa interruzione della produzione per le cause belliche. Ma esso non fu neppure visto da mio padre Camillo, che pure aveva collaborato, con i suoi fratelli, alla decisione di acquistarlo. Una improvvisa malattia a soli 60 anni, ne fermò, in una clinica sul lago di Garda, la vita semplice e generosa. Quel camion lo trasportò, invece al cimitero di Pisogne, suo paese natale, dove giunse accompagnato da tutti i suoi operai e da noi famigliari. Rivedo ancora quei momenti, tra i più tristi della mia vita.

Quali altri ricordi ha di Darzo e della sua gente?
La festa di Santa Barbara, protettrice dei minatori, celebrata ogni anno a dicembre, è tra i ricordi più lieti. Bisognava alzarsi molto presto al mattino, per giungere in tempo, da Brescia o da Milano, alla Chiesa di Darzo. Ma lì si trovava tutta la gente del paese: a pregare, a ringraziare, a cantare tutti insieme. Un bel momento di comunità, cui seguiva il pranzo in un ristorante della valle, insieme alla necessaria bevuta e a tanti altri canti finali.
Al brindisi di fine pranzo è capitato spesso a me di fare il discorso, sia perché per lungo tempo sono stato il presidente della società, sia perché Piero (che era il capo indiscusso dell’azienda) non desiderava parlare in pubblico. Poi, forse anche l’esperienza di Sindaco a Pisogne lo rese più disinvolto, e Gianfranco e io gli lasciavamo volentieri il discorso.

Lei si è sempre occupato della vendita della barite dagli uffici di Milano. Che problemi principali poneva quel lavoro?
Da Darzo la baritina di Marìgole ha viaggiato in tutto il mondo. Alla vendita ha provveduto per molti decenni l’Ufficio Vendite di Milano. Era nato (in Via Santa Radegonda, proprio accanto alla Rinascente) come Società Commissionaria Baritina s.r.l., cui confluiva la vendita di tutta la barite delle tre, principali miniere e aziende minerarie di Darzo; poi le singole aziende avevano deciso di provvedere separatamente ai rapporti con la clientela, in concorrenza tra loro. Quando nel 1954 cominciai ad occuparmi di barite, stabilendomi a questo scopo a Milano, la Commissionaria era già soltanto dei Corna. In seguito essa fu assorbita dalla Società Mineraria Baritina s.p.a., funzionando, appunto, come suo Ufficio Vendite, trasferito poi a Brescia quando io lasciai l’azienda, per dedicarmi alla ricerca e all’insegnamento universitario della Geografia, all’Università degli Studi di Milano.

Il mercato europeo della barite negli anni del dopoguerra era abbastanza complesso, sia per la molteplicità dei produttori (italiani, ma soprattutto tedeschi, francesi, spagnoli), sia per la varietà dei settori di utilizzo della barite. Non mi fu facile, dapprima, rendermi conto di quella complessità. La concorrenza più accanita veniva dalla Germania, che era pure, al tempo stesso, un grosso mercato di consumo del nostro minerale.

Durante un giro di visite, che ogni anno facevo ai nostri clienti tedeschi, ricordo di aver voluto rendermi conto dell’importanza dei concorrenti locali più forti: quelli di una ditta con sede negli Erzgebirge. Fermai la macchina nelle vicinanze della loro miniera e vidi uscire, carico di barite, un intero treno ferroviario di decine e decine di vagoni colmi di materiale .... mi sentivo come Davide di fronte a Golia! In effetti la dimensione della nostra azienda è sempre stata modesta, rispetto alle grandi imprese multinazionali che operano altrove nel settore minerario.

La nostra fortuna commerciale fu che la barite è un materiale molto pesante, sicché le sue spese di trasporto separano abbastanza nettamente le diverse zone di mercato. In quelle tedesche noi riuscivamo a vendere soprattutto quando le ditte germaniche ... erano in ritardo nelle consegne. Ma non mancarono occasioni di forniture importanti anche nei Paesi dell’Europa Orientale, allora molto difficile da raggiungere, perché contrapposti politicamente all’Europa Occidentale. La visita ai grossi clienti romeni e ungheresi, a Bucarest e Budapest, fu una delle esperienze significative di quei miei anni giovanili. Per la clientela italiana l’organizzazione della vendita fruiva invece di una decina di rappresentanti, nelle regioni di consumo più importanti. I pagamenti tardivi e lunghissimi furono però preoccupazione costante.

Intanto, alla attività imprenditoriale per la barite si affiancava in me un interesse crescente per la ricerca geografica, che conducevo studiando come Assistente Volontario alla Università Cattolica di Milano e, durante le vacanze, viaggiando per il mondo. In quelle occasioni non dimenticavo mai di interessarmi al mercato della barite, come mi accadde più volte contattando operatori del settore in Africa del Nord, America Latina e perfino in Cina, da poco apertasi, negli anni Settanta, ai contatti con l’Occidente, dove vi sono giacimenti di barite bianchissima. Mi confermavo allora della nostra ridotta dimensione aziendale, rispetto ai mercati mondiali. Questa diversa scala nella dimensione produttiva non ha però impedito mai alla piccola impresa di Marìgole di continuare a lavorare con efficienza, da più di un secolo.

Poi Lei ha cambiato mestiere e si è dedicato alla Università.
Per me era venuto il tempo di cambiare. Quando vinsi una Cattedra per l’insegnamento della Geografia in una Università italiana, decisi di lasciare la Baritina, perché le due attività contemporanee non erano compatibili, né per il tempo né per l’energia che richiedevano. Fu un abbandono non facile, perché erano due mondi professionali molto diversi, e si trattò per me di ricominciare dall’inizio. Inoltre la mia scelta non era molto condivisa in famiglia, soprattutto da mio fratello Piero, col quale avevo lavorato da una vita.

Oggi, settantasettenne, professore pensionato, guardo con simpatia non soltanto ai miei anni universitari e ai legami con intere generazioni di studenti e colleghi, ma anche agli anni della barite di Marìgole. Fu proprio nel lavoro aziendale che imparai tante cose importanti della vita concreta, più difficili da capire dedicandosi soltanto allo studio: anzitutto il rapporto con la gente, con i propri compagni di lavoro, in ufficio, nello stabilimento o in miniera; le relazioni con i clienti, spesso difficili e diffidenti, talora pagatori insicuri; le regole giuridiche e amministrative da rispettare, sul lavoro e negli affari; la complessità dell’economia industriale italiana e internazionale. Sono tutte conoscenze che mi sono risultate poi molto utili, anche nella ricerca scientifica e nei rapporti con il mondo universitario.

La barite di Darzo è stata anche lo strumento professionale che ha dato a molti, per lunghi anni, pane quotidiano: a me, come a tutti quelli che vi hanno lavorato e vi lavorano, in miniera, nello stabilimento o negli uffici amministrativi e commerciali. Quelle rocce bianche del Doss de Marìgole sono state una risorsa preziosa per molti, in Valle del Chiese, in Val Sabbia e altrove.

Naturalmente bisognò scoprirle, intuirne l’importanza e il valore, poi scavarle con fatica e con rischio, portarle a valle, lavarle, cernirle e macinarle; infine venderle e ottenere che venissero pagate. Tutte operazioni più complesse a farsi che non a dirle. Fu ed è stato un lavoro di molti, spesso faticoso e comunque organizzato come impegno di gruppo, in cui ognuno ha suoi compiti e responsabilità, che vanno assolti e rispettati. Una sostanziale armonia, per impegno di tutti, ha sempre regnato.

Quanto alle rocce bianche del Doss de Marìgole, sembra dunque giusto ringraziare Qualcuno, per aver posato quelle risorse nella montagna, e aggiungere un ringraziamento a tutti coloro che le hanno valorizzate, con il loro lavoro, rendendole utili a migliorare la qualità della vita di molti.

Memoria autobiografica scritta dal prof. Giacomo Corna Pellegrini Spandre, Milano ottobre 2009

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Si trova in Valle del Chiese in Trentino, a metà strada tra Brescia e Madonna di Campiglio.

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