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Battista Bonomini

Battista Bonomini

"Quell’anno della protesta il dottor Cima per ripicca ci aveva detto che non ci faceva la festa di Santa Barbara. Allora noi ce la siamo fatta da soli quell’anno la festa, e quando siamo usciti da messa abbiamo incontrato il postino con le raccomandate del licenziamento."

Mi chiamo Battista Bonomini. Sono nato a Storo nel 1933 e il soprannome della mia famiglia è “Botèr”, mentre il mio personale è “Gabóro” che era il soprannome di mio fratello che è passato a me quando poi lui è morto.
Erano anni magri e c’era bisogno di lavoro. La mia famiglia era contadina e con mio fratello avevamo le bestie. Allora d’accordo abbiamo deciso che io andavo in miniera per avere uno stipendio sicuro e lui continuava a seguire la campagna. In quel periodo incontravo quasi tutte le sere al bar Centrale il ragionier Gigino Baratella che veniva a vedere la televisione. Lui lavorava negli uffici della Sigma e allora gli chiedevo continuamente “c’è lavoro per me?” fino a che una sera mi ha risposto “vieni giù domani mattina”.
Ho lavorato alla miniera della Cima a Pice e Paèr dal 1956 al 1959. Facevo il minatore a Paèr e si lavorava 10 ore al giorno per poter recuperare il sabato e andare a casa il venerdì pomeriggio. Lavoravamo un po’ sfasciati, nel senso che non avevamo gli stivali, né l’abbigliamento adatto. Neanche la mensa avevamo. Si iniziava alle 7:00 e si lavorava fino a mezzogiorno, poi si faceva la pausa per mangiare e si ricominciava alle 14:00 fino alle 19:00. Il lunedì si cominciava alle 8:00 e durante il primo anno e mezzo sono salito a piedi; ci voleva almeno un’ora e mezza. Poi hanno messo una corriera fino alla strada per Faserno e così rimanevano solo 15 minuti da fare a piedi fino al cantiere di Pice.
Il lavoro non era brutto, ma era era pericoloso; bisognava stare attenti come le lepri se si forava la roccia lo sterile era duro, mentre la barite era morbida e veniva giù facilmente. Fare i fori per preparare la volata era il lavoro più brutto, perché c’era molta polvere e il rumore era talmente forte che non si capiva se stava venendo giù la montagna, perchè non si vedeva niente. Lo sterile, infatti, tendeva a staccarsi e a venire giù all’improvviso. Mi ricordo che una volta ero con Pasi Davide ed eravamo davanti ad uno stanzone tutto pieno di barite; stavamo lavorando ed è arrivata l’ora di andare a pranzo. Quando siamo tornati era crollata la parete del falso e tutta la barite era rimasta sotto.
Normalmente, una volta scavato, portavamo fuori la barite sui vagoni fino agli argani che poi portavano il materiale fino alla tramoggia della teleferica. Questa tramoggia si trovava a Pice e ci confluivano tutti gli argani che partivano dalle diverse gallerie.
Si lavorava sempre in coppia, anche in tre se c’era troppo pericolo. A parte il pericolo, il lavoro non era male, guadagnavo circa 28.500 lire al mese. Ogni tanto venivano il perito Campedei, un italiano, o il capo Dal Roi, un friulano, a dare indicazioni e raccomandazioni e poi ci si gestiva da soli. Spesso si lavorava una coppia in una galleria, un’altra sul fornello e così eravamo molto autonomi.
Il mio compagno di coppia era un minatore boscaiolo anziano, nato nel 1901, molto esperto Grassi Angelo, il papà dei Grassi Salvatore, poi con me c’erano anche Canetti Raffaele, Pasi Davide che è morto di recente, Sai Giovanni, Zontini Michele, suo fratello Zontini Silvio, e Coser Andrea. Eravamo su 30 ragazzi più o meno tutti della mia età a parte appunto il Grassi Angelo e il Zontini Silvio che erano più vecchi.
Dormivamo ognuno in una stanza con il letto e l’armadio, ma per il mangiare non eravamo messi bene. Avevamo una stanza con un tavolo per mangiare, ma il focolare per cucinare era all’esterno sotto una tettoria di lamiere. Non avevamo la mensa, né il cuoco. Pasi Davide e io eravamo incaricati di fare la spesa per tutti all’inizio della settimana e poi si divideva. Ognuno, in più si portava da mangiare quanto bastava fino al mercoledì e poi le donne mandavano altre cose con la teleferica. Comunque, si doveva mangiare sempre riscaldato. Noi facevamo la polenta con la farina che ci passava la ditta, mezzo chilo al giorno, ma poi in realtà erano sì e no due etti a testa. Insomma bisognava arrangiarsi.
Poi è successo che nel 1959 poco prima della festa di Santa Barbara, io e Raffaele Canetti abbiamo convinto gli altri, e anche il capo e il perito erano d’accordo, a chiedere che ci costruissero la mensa e che ci dessero i gambali per proteggerci dall’acqua. Siccome il padrone non era d’accordo, ho detto “andiamo a casa tutti”: gli altri mi hanno ascoltato e siamo scesi tutti al paese. È rimasto su solo il guardiano Giovanni Armanini, detto “Cavalì” che adesso è morto. Così è arrivata per tutti la lettera di licenziamento e sono stati assunti un nuovo perito, il Casotti Enrico della val di Non e un nuovo capo Pasquino di Baitoni, non mi ricordo il cognome. I minatori, invece, sono venuti dalla val di Fiemme e anche da Storo due o tre sono tornati, ad esempio Grassi Angelo perché gli mancava poco alla pensione. Certo quando sono arrivati qualche mese dopo, loro hanno trovato tutto sistemato, la mensa e anche il cuoco, mentre noi, che abbiamo protestato, abbiamo avuto il licenziamento. Ecco come è andata: siamo scesi della miniera per protesta poco tempo prima della festa di Santa Barbara di quell'anno e il dottor Cima ci ha minacciato che se non tornavamo su non ci faceva la festa. Allora noi ce la siamo fatta da soli e quando siamo usciti da messa prima di andare a festeggiare a pranzo abbiamo incontrato il postino che ci ha dato le raccomandate del licenziamento.
Dopo questo fatto, in quei primi mesi del 1960 sono emigrato in Germania; ho preferito andarmene perché ero giovane e non mi andava di stare chiuso in galleria. Poi dopo pochi mesi sono dovuto tornare a Storo a seguire la campagna e le bestie perché mio fratello si era fatto male. Così poi sono andato a lavorare alla Maffei insieme a mio fratello. Avevamo chiesto al direttore se potevamo avere i turni alternati in modo che quando uno di noi due lavorava di giorno, l’altro aveva il turno di notte dalle 4:00 alle 12:00 così poteva stare dietro alla campagna. Lavoravo all’insaccatrice, in mezzo alla polvere, e caricavamo fino a 12 camion al giorno di sacchi di feldspato. Lavoravano con me mio fratello e Giovanni Sai, più e meno gli stessi che avevano lavorato con me in galleria alla Cima. Ci sono rimasto dal 1961 e 1967. Poi mi sono sposato e ho lavorato alla segheria di mia moglie.
Mi ricordo che il dottor Cima era un uomo alto e grosso che ha fatto del bene al paese. Di suo spontanea volontà per gli operai aveva pensato ad un'assicurazione in caso di malattia o di infortunio: tratteneva qualcosa dagli stipendi e poi qualcosa metteva lui e veniva fuori quasi uno stipendio oltre a quello che dava la cassa malati. Poi ha finanziato anche la costruzione dell'asilo di Storo intitolandolo a sua figlia Isidora che è morta piccola e ha pagato una campana e tutti i lampadari della chiesa.

Mio papà si chiamava Giacomo Pasi era nato nel 1875 ed è deceduto nel 1955. Ha lavorato per la ditta Corna a fabbricare le murature a secco ad esempio le briglie nel torrente, non so in che periodo.
 
Intervista raccolta a Storo il 24 novembre 2014.

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