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Antonio Pasi

Antonio Pasi

"Mi ricordo che il dottor Cima si portava sempre dietro un cagnolino e gli dava da mangiare una stecca intera di cioccolata davanti a noi che non avevamo niente da mettere insieme alla polenta."

Sono nato in Tunisia nel 1936 da una famiglia originaria di Storo.
Mio padre Matteo Pasi era del 1908 ed era emigrato lì come fabbro per lavorare nelle miniere di zinco e piombo. Quando nel 1956 la Tunisia ha raggiunto l'indipendenza a noi emigranti hanno dato la possibilità di scegliere se andare in Francia oppure nel paese d'origine. Solo io della mia famiglia ho scelto l'Italia, mi hanno dato un foglio di via e sono arrivato a Storo. Non sapevo neanche dove fosse, ma quando sono arrivato i cugini di mio papà mi hanno aiutato e sono andato a vivere da una zia. Poi ho cercato lavoro. Sono andato a chiedere in ufficio della ditta Cima e il “Bèrgam” mi ha assunto perché altri lavori stabili in quegli anni non ce n'erano. 
Ho lavorato per la ditta Cima dal 1956 al 1958 poi sono andato militare. Io lavoravo in galleria facevo 10 ore al giorno; si stava su dal lunedì al venerdì dopo pranzo, così si recuperava e il sabato si stava a casa. Facevo l'aiuto minatore nella famosa galleria Martelli. Per fare la volata si facevano dai dodici ai sedici buchi e si riempivano di dinamite, le “salamelle” dicevamo noi, poi si tagliavano le micce della lunghezza giusta per dare tempo a noi di allontanarci prima dell'esplosione. Però ogni tanto gocciolava dell'acqua e si spegneva una miccia. Mi ricordo una volta che ero insieme al mio compagno Gioanin, lo chiamavo, da Baitoni: lui continuava a voler riaccendere la miccia che si era spenta, mentre le altre andavano avanti e non voleva venire via. “Se vuoi crepare, crepa” gli ho detto, e lui mi ha ascoltato; abbiamo fatto in tempo a metterci dietro una curva della galleria fatta a posta per riparasi ed è partita l'esplosione: siamo finiti a terra come due salami. “Hai visto Gioanin, gli ho detto, se ascoltavo te adesso come eravamo finiti?”
Una volta fata la volata Zontini Fiorindo chiamato Capuce, e io portavamo fuori il materiale con i vagoni. Uguali a quelli che sono stati messi qualche anno fa lungo la strada per Caffaro, dove c'era la Maffei. Per facilitare questo lavoro le gallerie venivano costruite un po' in pendenza verso l'uscita. Caricavamo i vagoni con il badile e mentre li portavamo fuori, per frenare, avevamo un pezzo di legno che mettevamo tra le ruote. Avevamo vent'anni e queste cose si facevano. Poi arrivavamo alla teleferica, si rovesciava il vagone e poi la teleferica portava giù il piombo bianco, la barite, al mulino.
Era un mestiere duro ma non c'era altro da fare; non era questione di piacere o meno. Però rispetto ad altri compagni a me la galleria non faceva impressione: una volta al Capuce, è crollato davanti un pezzo di roccia che gli ha lasciato in mano solo il manico del badile, pensare se eravamo qualche metro più avanti! Ecco il lavoro era così e c'era chi veniva a vedere il posto e poi scappava subito perché non resisteva. Il fatto è che dopo cinque ore praticamente al buio è un po' un colpo uscire magari al sole d'estate. La luce dentro in galleria si faceva con le lampade a carburo che ogni tanto si spegnevano perché ci cadeva sopra un po' di acqua e anche i cerini non si accendevano perché era tutto umido, e non avevamo gli accendini come adesso.
La ditta non passava il vestiario per lavorare, né gli stivali o te li comperavi oppure c'erano gli “sgàlbar” fatti con la suola di legno e sopra una scarpa vecchia inchiodata e così il piede stava più asciutto. Perchè non si consumasse la suola si inchiodava sotto una rete di ferro. La ditta passava solo la lampada e il casco.
Si dormiva in una baracca fatta con le lamiere di zinco e dalla festa di Santa Barbara per i due mesi successivi la miniera chiudeva, perché anche la teleferica non girava bene con il ghiaccio. Stavamo a casa due mesi senza stipendio e poi si ricominciava in febbraio.
Io stavo a dormire a Paèr ma c'era anche una baracca a Pice; non si potevano chiamare case, erano baracche di zinco dove si dormiva in sette o otto e alcuni avevano uno scaldaletto, ma io no, mi sembrava di dormire in mezzo al ghiaccio. La mattina si cominciava alle 6:00 e la colazione era a base di caffè con un po' di burro o vino e del pane. Il pane arrivava fresco una volta alla settimana, e il caffè era fatto con una miscela ma non era caffè:  si chiamava “Leone” e lo facevamo nuovo una volta alla settimana poi lo bevevamo sempre riscaldato. Finivamo di lavorare alle 11:00 e a mezzogiorno si mangiava polenta e "mangiasecco" magari un po' di salame. Io stavo con una zia qui a Storo che mi dava dietro un po' di companatico che mi doveva durare tutta la settimana e quando non durava ci si arrangiava. All'una e mezza si riprendeva e si lavorava fino alle 18:30; ma quando sei da cinque ore nella galleria le senti. La sera mangiavamo la minestra con il lardo “pastà” con la cipolla e un po' di maccheroncini. A me faceva schifo il lardo a pezzi nella minestra e mi sembrava di prendere l'olio di ricino così andavo a buttarlo nella fontana. Ogni minestra ci costava 35 lire e la pagavamo al minatore Isidoro “Doro” Poletti che si occupava di questo. Adesso è morto di silicosi, al Santa Chiara. Per farci da mangiare avevamo un focolare e una volta mentre Doro stava facendo la minestra dentro la ramina, è venuto un altro minatore che aveva le calze tutte bagnate e le ha appoggiate sopra il gancio della ramina, ma queste gocciolavano dentro la minestra. Allora urloni e via a togliere le calze.
Per guadagnare qualcosa in più d'estate alcuni di noi facevano un contratto con il caseificio sociale di andare a prendere il burro in una malga che distava circa un'ora dalla baracca della miniera. Si tornava carichi di cinquanta chili di burro, lo si metteva sulla teleferica e poi andava al caseificio. I soldi che guadagnavamo bastavano per fare una buona bevuta una sera. Però dopo dieci ore di galleria, farsi un'altra ora di montagna a salire e un'ora e mezza a scendere con cinquanta chili sulla schiena come gli asini sembrano barzellette. Portavamo giù due quintali di burro alla settimana.
Quando ero su, giovani come me c'erano Gianni Sai, poi il Zontini Fiorindo, gli altri erano tutti più vecchi ma ci trattavano bene: mi ricordo il Coser Andrea, "Cosarello" di soprannome, Armanini Danilo Angelo detto “Basinél” che era il più vecchio. Poi c'era Isidoro “Doro” Poletti che era in cuoco e il Gianni Armanini detto “Cavalì” e Armanini Salvatore detto “Pìr” di Storo. Da Condino c'erano i fratelli Rosa, Angelo e Gaetano.
Siccome le condizioni di vita erano molto brutte nel 1959 abbiamo fatto sciopero al signor dottor Cima, era uno dei primi scioperi che si facevano in zona. Noi minatori ci siamo licenziati tutti in tronco, lui allora, furbo, ha fatto venire tutti minatori e manovali nuovi da Bergamo. Questi, però, che non sono trentini, gli hanno detto “veniamo, ma vogliamo la mensa e una casa non una baracca”. Così a loro ha dato tutto, anche lo stipendio raddoppiato rispetto al nostro e a noi niente. Infatti poi l'Antonio Festa è andato a fare in cuoco. Ha fatto venire quelli di Bergamo per fare un dispetto agli operai. Cosa faceva il dottor Cima? Ci pagava solo 28.000 lire quando alla Sapes ne prendevano 50.000 lire e a noi operai ci dava un chilogrammo di farina gialla alla settimana e nient'altro. Poi aveva un'amante in ogni paese e si mangiava i soldi così e a noi non dava niente. In più, per farsi bello faceva i regali al paese facendo costruire l'asilo e alla chiesa comperando microfoni e altre cose. Mi ricordo che si portava sempre dietro un cagnolino e gli dava da mangiare una stecca intera di cioccolata davanti a noi che mangiavamo polenta senza niente, ma si può?
Proprio mentre facevamo sciopero mi è arrivata la cartolina e sono andato militare. Quando sono tornato il capo mi ha detto che non mi mandavano più in galleria, ma a fare il mugnaio. Ma stare al mulino è peggio, perché sono tutti morti di silicosi per la polvere di barite che è fine come la farina e allora mi sono fatto pagare quello che mi dovevano e sono andato a lavorare alla Sapes. Lì andava molto meglio: guadagnavo di più ed ero trattato meglio. Non sono tornato alla Cima anche perché noi minatori che avevamo scioperato eravamo d'accordo che non si doveva tornare a lavorare con il Cima. Quindi dagli anni '60 fino alla chiusura della miniera della Sigma la maggior parte dei minatori sono stati solo dei bergamaschi o persone da altri paesi, ma da Storo non è andato più nessuno. Invece nello stabilimento quelli di Storo hanno continuato ad andare a lavorare soprattutto le donne come cernitrici. 
 
 Intervista effettuata a Storo,  il 16 aprile 2014.

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Darzo è un paesino di circa 750 abitanti, frazione di Storo, vicino al Lago di Garda e alle sponde del Lago d'Idro.

Si trova in Valle del Chiese in Trentino, a metà strada tra Brescia e Madonna di Campiglio.

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