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Fabiano Zanetti

Fabiano Zanetti

"La miniera la conosco come le mie tasche, anche se sono passati solo quattro anni da quando hanno chiuso, ne sento la mancanza."

Mi chiamo Fabiano Zanetti. Sono nato a Bagolino nel 1962.

Ho cominciato a lavorare per la ditta Mineraria Baritina di Darzo nel 1983 come minatore a Marigole, prima ero muratore. Ho cominciato lì perché ci lavorava mio papà Stefano. Sono andato a chiedere personalmente ad Angelo Delaidini che era il direttore dello stabilimento se c'era bisogno di qualcuno e mi hanno subito assunto. All'inizio il lavoro era duro poi andando avanti ho imparato dagli anziani che già lavoravano e mi sono inserito. Il mio compagno è stato Vincenzo Foglio di Bagolino che mi ha insegnato tanto e penso che sia anche grazie a lui che non mi sono mai fatto male lavorando il miniera, perché il lavoro è molto pericoloso e io non ho mai avuto nessun problema. Si lavorava sotto terra, con gli stivali perché c'era quasi sempre fanghiglia, sempre in coppia dalle 7:00 alle 12:00 e dalle 13:00 alle 18:00. Mi ricordo che i primi anni che ero si scavava anche di notte a ciclo continuo: poi negli anni '90 abbiamo smesso anche perché gli operai non volevano più fare questi turni. Il mio lavoro consisteva nell'estrarre la barite dalla montagna.
Il cantiere a Marigole avanzava su tre fronti: la galleria chiamata la Felice, la Santa Barbara e la Vittoria. In ogni galleria lavoravano due minatori. Poi un coppia stava all'esterno a portare fuori i vagoni e un'altra coppia faceva altri lavori, ad esempio preparava il legname per armare. Si lavorava sempre in copia e si cambiava compagno solo se uno stava male o era doveva assentarsi. Insieme ai minatori stava tutto il giorno il perito minerario Emilio Bartoli e il capo cantiere Costantino Zanetti che era mio zio. Quando lui è andato in pensione sono subentrato io. Poi due volte alla settimana veniva il perito Gian Vittorio Tanghetti, che è stato come un padre per me. Il proprietario, l'ingegner Piero, veniva raramente, ma era molto in gamba una persona eccezionale.
Il filone di barite aveva una forma ad imbuto, in alto era largo e poi si stringeva verso il basso. I primi anni della miniera il materiale era tanto e i minatori lavoravano nel cuore della barite, poi mano mano che il cantiere si abbassava la quantità è diminuita.
Per fare esplodere la roccia ed estrarre la baite, per prima cosa bisognava “smarinare”, vale a dire togliere tutti i sassi della parete smossi dall'esplosione precedente fino a trovare la roccia sana dove fare i buchi per inserire l'esplosivo. Allora prendevamo la perforatrice ad acqua e ci mettevamo anche quattro ore a fare i fori: dipendeva dalla roccia; i buchi erano profondi da un un metro e venti  fino ad un metro e sessanta centimetri, se la roccia era sana; ne facevamo dai venti ai trenta. Una volta puliti i fori, caricavamo con la dinamite e se la roccia era bella tiravamo fuori anche cinque o sei camion di materiale, i primi tempi.
All'inizio la miccia si bruciava ancora con le lampade a carburo. La fase dell'accensione era un po' pericolosa: bisognava, infatti, inserire in ogni buco cinque o sei cartucce di dinamite da venti o venticinque centimetri, una miccia lunga un metro e venti o di più, e poi con il coltellino tagliavamo le micce, sempre un pò più corte calcolando i tempi di innesco a scalare di un secondo uno dall'altro. Dopo questa operazione mettevamo in pressione la lampada in modo che facesse una bella fiamma e davamo fuoco: iniziavamo in alto o dalla miccia centrale, nel cuore della roccia, e davamo fuoco a tutte le micce fino a quelle più in basso ai “rilevaggi”, si chiamavano. Una volta dato fuoco a tutto, scappavamo fuori. Si arrivava, quindi, anche a trenta esplosioni fortissime una dietro l'altra. Verso il 2003 hanno portato un altro tipo di esplosivo, il tutagex, che è meno forte, ma fa lo stesso lavoro e questo esplosivo si bruciava con l'innesco elettrico. Con questo sistema il lavoro è diventato più sicuro.
Per portare fuori il materiale nei primi tempi che lavoravo si usavano le pale a binario autocaricanti che si muovevano sui binari che bisognava mettere giù mano mano che la galleria avanzava. Una volta riempita la pala si spingeva a mano fuori dal cantiere per scaricarla sulla tramoggia da dove la prendeva il camion o il trattore. Anche la teleferica si usava ancora ed è stata smontata solo nel 2008. Le pale binario sono state utilizzate ultimamente prima di chiudere la miniera per riempire i fornelli con gli scarti della lavorazione di barite che erano stoccati allo stabilimento di Darzo. Il camion che portava giù a Darzo la barite, risaliva con gli scarti e con le pale gommate portavamo in galleria gli scarti e li buttavamo nei fornelli. Perchè giù allo stabilimento gli scarti non potevano più stare.
Dopo qualche anno hanno introdotto la pala gommata autocaricante: si caricava la barite che si era fatta esplodere la sera prima e si portava il materiale ai fornelli che portavano la barite in basso, magari 100 metri più in basso, dove c'era la tramoggia attaccata alla montagna a livello dei binari. Poi dall'esterno si scendeva a questo a livello, si caricavano i vagoni, anche 180 quintali di barite alla volta, e si portavaalla tramoggia che stava fuori dove il camion la prendeva e la portava allo stabilimento per la lavorazione. La barite è molto pesante e la nostra era tutta bella bianca, infatti la chiamavano l'oro bianco.
Un altro tipo di lavoro molto pesante era l'avanzamento delle gallerie. Perchè non crollasse la montagna bisognava armare le gallerie con strutture in legno di robinia: quadrati si chiamavano queste armature. Mettevamo le gambe verticali e il cappello orizzontale e così si faceva l'”infilaggio” per andare avanti di un metro, se andava bene, altrimenti solo di cinquanta o sessanta centimetri. Si facevano anche 20 metri di galleria in questo modo. Questo lavoro si faceva anche nel caso delle frane che andavano fermate per poter avanzare: mi ricordo l'impressione che mi faceva vedere che la pressione della montagna arrivava a spaccare tronchi di cinquanta centimetri di diametro messi uno dietro l'altro. La paura era tanta e anche il pericolo soprattutto per i sassi pericolanti che potevano staccarsi da un momento all'altro e prenderti sulla testa. Ma per fortuna non è mai successo niente dei grave durante gli anni che ho lavorato io.
Quando ho cominciato a lavorare su, facevano già la ripiena cementata e per fortuna hanno trovato questo sistema altrimenti la montagna sarebbe tutta franata. Mentre, in questo modo, ogni galleria esaurita veniva riempita e allora si scendeva a lavorare sotto o di lato senza il pericolo che la montagna crollasse in testa ai minatori. Per fare la ripiena cementata veniva portata su la ghiaia con il trattore di Giancarlo Donati e poi una betoniera della ditta Scaglia di Storo faceva il cemento: con dei tubi e la pompa si gettava il cemento nella galleria fino a riempirle tutta. Per fare questo lavora ci si metteva due o tre giorni e si buttavano dentro anche 300mc di cemento lavorando  anche di notte. Quando dopo una ventina di giorni il cemento si induriva, si toglievano le armature e si scavava a fianco della galleria cementata e così via fino ad esaurire tutto quel livello di materiale. Si facevano anche 15 gallerie una attaccata all'altra profonde venti o venticinque metri larghe due metri  e mezzo e alte tre.
Nel 1983 mi ricordo che eravamo su 28 operai; la maggior parte era dalle zone qua, ma d'inverno venivano a lavorare da noi quattro o cinque operai da Bergamo e dalla Val Trompia che d'estate lavoravano per la stessa ditta in un'altra miniera di barite a Monte Erto. Andando avanti con gli anni i lavoratori sono sempre diminuiti alla fine eravamo in otto. Salivamo a lavorare con la campagnola della ditta il lunedì e poi chi abitava vicino scendeva anche il mercoledì sera e risaliva il giovedì. Poi tutti scendevamo il venerdì. Quelli che avevano la macchina scendevano anche più spesso. Su avevamo la cucina: il primo cuoco che c'era quando ho cominciato si chiamava Giulio di Ponte Caffaro molto bravo. Poi quando è andato in pensione, è arrivato Giuliano Festa di Storo, anche lui ottimo cuoco, ed è rimasto fino alla fine quando la miniera è stata chiusa nel 2009. Dormivamo nella casa del minatore. Stare su tutta la settimana era abbastanza duro, ma si passava il tempo libero a giocare a carte e si parlava. Soprattutto d'inverno la vita su a 1.100 metri era difficile: la neve era tanta anche più di un metro e bisognava spalare tutti i giorni per farsi la strada verso le gallerie. Una volta mi ricordo siamo rimasti una settimana senza luce elettrica e dovevamo illuminare sempre con le lampade a carburo.
A me questo lavoro è piaciuto, già da militare avevo imparato a comportarmi con l'esplosivo e quindi avevo già un po' di esperienza. Mi piaceva fare le perforazioni e portare fuori il materiale. La cosa che mi piaceva di più era fare le armature delle gallerie, quello mi dava soddisfazione. Certo la paga non era alta, ma sicuramente arrivava ogni mese. Ho pensato qualche volta di cambiare lavoro in quasi 27 anni che sono stato su, ma poi ho preferito rimanere perché mi trovavo bene. La miniera la conosco come le mie tasche ogni buco e ancora adesso ogni tanto il perito Tanghetti mi chiama per andare su a Marigole a fare qualcosa. Mi fa una certa impressione tornare su anche se sono passati solo quattro anni da quando hanno chiuso, ne sento la mancanza.

Mio papà si chiamava Stefano Zanetti era nato nel 1938 ed è deceduto nel 2005. Ha lavorato come minatore nella stessa ditta in cui ho lavorato per 26 anni. Quando lavorava lui non c'erano le pale gommate ma solo le pale binario e quindi anche le gallerie si facevano più piccole circa un metro e mezzo per un metro e mezzo. Erano scomode sicuramente, ma più sicure di quelle grandi che facevamo noi. Quando lavorava mio papà il cantiere andava avanti nel cuore del filone di barite.

Il fratello di mio papà Costantino Zanetti

Il fratello di mia mamma Enerio Cherubini è nato nel 1946 e ha lavorato come minatore nella stessa ditta la Mineraria Baritina negli stessi anni in cui ho lavorato io.

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Dove sono le Miniere di Darzo

Darzo è un paesino di circa 750 abitanti, frazione di Storo, vicino al Lago di Garda e alle sponde del Lago d'Idro.

Si trova in Valle del Chiese in Trentino, a metà strada tra Brescia e Madonna di Campiglio.

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