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Giovanni Schivalocchi

Giovanni Schivalocchi

"Mi ricordo che quando abbiamo messo in funzione il forno il dottor Cima è venuto ha vedere e poi si è messo una mano in tasca e ha tirato fuori una manciata di monete e me le ha date in mano. Le ho messe sul tavolo, monetine da 10, da 50 lire: in tutto erano 300 lire."

Mi chiamo Giovanni Schivalocchi. Sono nato a Lodrone nel 1939 e il soprannome della mia famiglia è “Calighi”.
Ho cominciato a frequentare la ditta Sigma ancora prima di essere assunto a lavorare: in quegli anni lavorava alla Sigma un tecnico che veniva da Custoza in provincia di Padova che mi faceva una sorta di scuola privata da elettricista. Si chiamava Andrea Yavoski conosceva mia zia, Tranquilla Schivalocchi, che lavorava alla Sigma e aveva l'ambizione di fare l'insegnante e così andavo da lui di sera a lezione. Nel frattempo continuavo ad andare a scuola, perché a quei tempi si doveva ripetere la quinta fino ai 14 anni, perché non c'erano altre scuole a Storo. Poi quando ho compiuto i 15 anni, ho terminato questi studi da “privatista” e mi hanno assunto perché serviva un operaio elettricista. Poi dopo qualche mese che lavoravo lì, hanno licenziato questo mio “maestro” e hanno temuto me che siccome ero giovane costavo meno.
Infatti in quel periodo, tra il 1955 e il 1957, hanno fatto una sorta ristrutturazione alla ditta e hanno licenziato tutti i tecnici: un ingegnere Baratella, il “Polana” di Storo non so come si chiamava, insomma hanno mandato via tutti i pezzi grossi. Non sono stati riassunti altri tecnici ci siamo arrangiati. Anche a livello amministrativo hanno spostato a Milano la maggior parte del lavoro. Anche i capi della miniera sono cambiati spesso, mi ricordo il perito Campedel ma altri no, ero un ragazzino e pensavo a fare il mio lavoro. Penso che la situazione fosse così instabile, soprattutto in miniera, perché gli operai erano trattati abbastanza male. Ad un certo punto è arrivato un capo che voleva dare un po' di dignità ai minatori, ad esempio organizzare un po' di mensa, dato che allora mangiavano poco più che polenta. Ma alla dirigenza non andava bene e penso che lo abbiano costretto ad andare via.  Non ricordo il suo nome, ma penso che venisse dalle parti di Belluno perché i periti minerari venivano tutti da lì dove c'era una scuola. Dopo col tempo le cose sono migliorate: io sono rimasto otto anni e mi è capitato di andare a Pice e ho visto che avevano costruito la mensa e c'era il cuoco, Antonio Festa, la tavola con la tovaglia. Un miglioramento dal giorno alla notte.
Così dopo pochi mesi che lavoravo alla Sigma nel 1955 mi sono dovuto arrangiare da solo e dovevo fare un lavoro difficile, perché c'era da gestire la centralina elettrica dentro lo stabilimento, una marea di motori elettrici e una volta uno una volta l'altro c'era sempre da fare. Ero elettricista ma se occorreva andavo a riparare la teleferica insieme ai meccanici perché quando c'era qualche lavoro grosso mobilitavano tutti. Il mio capo era il Quarenghi, mentre il capo dell'officina che si chiamava Imac, era Luigi Piccinelli. Questa attività serviva come manutenzione allo stabilimento e poi producevano anche qualcosa ma poca roba.
Certo le soddisfazioni sul lavoro erano poche, anche se per fortuna lavoravo da solo e quando tutto funzionava potevo anche starmene tranquillo: potevo studiare un po' i libri sugli impianti elettrici, spolverare le macchine della centrale o oliare qualche motore, insomma potevo gestirrmi il lavoro abbastanza autonomamente. Altre volte poteva accadere che mi chiamassero anche di notte, se di fermava una macchina o la domenica per un'emergenza che non si poteva risolvere con gli impianti in funzione.
Con gli altri colleghi il rapporto era buono, forse perché ero il più giovane, io davo del lei, ma eravamo amici. Al lavoro andavo in bicicletta da Lodrone e solo gli ultimi due anni ho comperato la moto: partivo dallo stabilimento a mezzogiorno ed ero di ritorno già alle 14:00. Facevo i turni dalle 8:00 alle 12:00 e dalle 14,00 alle 18,00, sabato compreso.
Tra i lavori più importanti che ho fatto i ricordo che abbiamo ricostruito la linea di alta tensione dalla centralina che allora correva sui pali di legno con i fili sottili. Siccome ad ogni temporale o vento forte bisognava andare a riparla, l'abbiamo rifatta con le corde di rame e i pali di ferro. Infatti a quei tempi lo stabilimento era autonomo e solo dopo si sono attaccati alla rete esterna di distribuzione. La centralina è il gioiello dello stabilimento: è stata costruita nel tempo di guerra, penso tra il 1942 e il 1944, e aveva la caduta che a questi tempi era la seconda in Europa per pressione del salto. Era stata costruita dagli operai che per invalidità o altro non sono andati al fronte con pezzi fatti a mano. Il bacino a Paèr e le prese dell'acqua a Faserno, gli scavi per le tubazioni erano stati fatti tutti a mano. È entrata in funzione nel 1946 e ha sempre funzionato senza mai rompersi per almeno dieci anni. Poi si è bruciata una bronzina quando c'ero io ed è stata la prima riparazione. Per trovare il pezzo e ripararla ci abbiamo messo due settimane: abbiamo fatto rifare la bronzina alla De Pretto di Schio e siamo andati giù, il padrone ed io, dal capo della ditta e il dottor Cima gli ha anche dato la mancia, perché siccome la centrale lavorava con un salto altissimo, erano un po' dubbiosi e avevano un po' di apprensione di non riuscire a costruire una bronzina capace di reggere una pressione tale.
Un altro bel lavoro che ho fatto, è stato l'impianto del forno rotatorio per asciugare la barite, le resistenze le abbiamo costruite in officina su dati forniti da altri, ma tutto il resto lo abbiamo progettato e costruito noi. La linea elettrica di alimentazione e il quadro li ho pensati e costruiti da solo. Mi ricordo che quando abbiamo messo in funzione il forno il dottor Cima è venuto ha vedere e poi si è messo una mano in tasca e ha tirato fuori una manciata di monete e me le ha date in mano. Le ho messe sul tavolo, monetine da 10, da 50 lire: in tutto erano 300 lire.
Il dottor Cima non amava stare con i propri operai: se capitava in un bar a Storo e vedeva che dentro c'era un suo dipendente usciva subito. Quando arrivava una volta alla settimana allo stabilimento sparivano tutti. Siccome io avevo una mia piccola officina di fronte al suo ufficio quando doveva chiamare qualcuno, faceva il fischio alla pastora e mi mandava a cercare la persona con cui voleva parlare, perché sparivano tutti quando arrivava. Di buono devo riconoscere che la ditta mi ha pagato i contributi e l'assicurazione dal primo giorno di lavoro e non tutti i datori di lavoro all'epoca lo facevano.
I primi tempi guadagnavo 15.000 lire poi verso la fine circa 30.000 lire quindi come un minatore. Poi sono riuscito a farmi riconoscere una scuola per elettricisti per corrispondenza che avevo seguito quando ero ragazzo. Quando ho preso il diploma l'ho fatto vedere in ditta e mi hanno dato due mila lire di più al mese di stipendio.
Ho smesso nel 1961 quando sono andato militare. Sono tornato a lavorare qualche mese e poi ho lasciato, perché ho sempre avuto il pallino di lavorare per conto mio. Così nel 1963 mi sono messo in proprio. Poi un altro fatto che mi ha spinto ad andarmene è stato che mentre ero militare avevano assunto il Bruno Bonazza e quando sono ritornato eravamo in troppi per il lavoro che c'era.
Qualche anno dopo che mi ero messo in proprio, la Sigma ha aperto un'altra ditta che produceva condensatori, la Condel e qualche volta mi chiamavano per qualche manutenzione. Il dottor Cima era morto da anni e il direttore all'epoca si chiamava Zanardi, una persona che teneva molto a far star bene gli operai. Un giorno siamo andati insieme a Brescia a prendere del materiale. Parlando del più e del meno gli ho detto “se tornasse il dottor Cima cadrebbe morto disteso a vedere l'officina della Condel” “Perchè?'” mi chiede Zanardi, “perché”, gli dico, “ci sono le ragazze che lavorano ciascuna con il suo tavolino, la radio, la bella luce, tutto pulito riscaldato e confortevole”. Lui infatti non sapeva che ai nostri tempi non ci lasciavano neanche il tempo di mangiare: ho visto io i mugnai che facevano i turni, mangiare seduti sugli scalini all'esterno, in mezzo alla polvere. Non facevano niente per facilitare il lavoro degli operai.

Mio papà si chiamava Pietro Schivalocchi ed era nato nel 1911. Ha lavorato per la ditta Maffei dal 1946 o 1947 e ci è rimasto fino a che è stato licenziato perché era troppo vecchio qualche anno prima di raggiungere la pensione. Non hanno aspettato che raggiungesse gli anni della pensione e così non ha preso molto. In quegli anni c'è stato un cambiamento forte, hanno licenziato i vecchi e assunto giovani. Ha lavorato tutta la vita lì come mugnaio. È morto nel 1988.

Mia zia Tranquilla Schivalocchi era del 1917 ed è morta lo stesso anno di mio papà nel 1988. Faceva la cernitrice alla Sigma, ma capitava che andasse anche a lavorare per la moglie del dottor Cima a Milano, oppure quando il padrone si fermava a Storo, gli faceva i mestieri e si preoccupava di preparare da mangiare per lui e il suo cane, al quale teneva di più che a noi operai. Ha lavorato per la Sigma tutta la vita: era già dentro prima di me ed è rimasta anche dopo che sono andato via io. Non si è mai sposata, ma in quegli anni le donne che lavoravano o erano giovani o zitelle.
 
Intervista effettuata a Lodrone, il 23 ottobre 2014.

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