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Viola Gelmini

Viola Gelmini

"Mi ricordo che i primi tre mesi a fissare questo nastro che passava davanti con la barite mi veniva la nausea come il mal d'auto: vedevo il nastro fermo e noi sugli sgabelli che ondeggiavamo."

Mi chiamo Viola Gelmini. Sono nata nel 1950 e la mia famiglia viene chiamata “Feràta” oppure “Cogròs”.
Ho cominciato come cernitrice per la ditta Sigma e ho cominciato nel maggio del 1968. Ho trovato questo lavoro perché mio papà ha chiesto a Quarenghi o forse a Casotti se c'era c'era una cernitrice che andava in maternità quindi ho preso il suo posto. Ho lasciato il lavoro quando mi sono sposata e sono andata a vivere fuori paese.
Il lavoro era abbastanza duro specialmente in inverno per il freddo perché avevamo sempre le mani bagnate. Avevo i geloni alle mani e per alleviare il freddo c'erano due tubi caldi che passavano all'altezza delle gambe e dei piedi, ma lo stesso mi venivano sempre i geloni sia alle mani che i piedi e dal prurito non riuscivo a dormire di notte.
Quando ho iniziato a lavorare le altre erano tutte più anziane di me. Insieme a me lavorava mia zia Margherita, o come la chiamavamo Rita, e faceva un po' il capo tre le cernitrici e non sapeva che sarei andata a lavorare. Così quando sono arrivata mia zia è rimasta sorpresa e all'inizio non mi hanno accolto molto bene, e ho legato solo con Ivana Marini. Poi dopo qualche anno sono arrivate altre colleghe giovani, come Angela ZontiniCarla Tonini e Rosa Zocchi e le cose sono migliorate. I primi tempi si recitava il rosario e poi le giaculatorie  al mattino e si ripeteva al pomeriggio. Nel 1972 ci hanno portato la radio. È stato il Casotti a portarci la radio. La compagnia delle colleghe, invece, era molto piacevole. Da questo punto di vista era un lavoro più bello ad esempio di quello che facevo prima in una ditta di meccanica. Anche la retribuzione era migliore alla Sigma, mi ricordo che guadagnavo circa il doppio.

Mi ricordo che nell'officina prendevo circa 30.000 lire al mese, mentre alla Sigma subito ho ricevuto 60.000 lire. Quando nel 1973 ho smesso, lo stipendio era sui 90.000 mila.  Lo stipendio che guadagnavo lo davo in casa e siccome i miei quattro fratelli più piccoli studiavano i soldi servivano per quello. A me davano qualcosa per il cinema o per prendere qualche lenzuolo perla dote e poco altro. Invece la liquidazione quando mi sono licenziata, che mi ricordo erano 450.000, me la sono tenuta per farmi la dote, perché un mese dopo mi sposavo.

C'era il nastro trasportatore e le prime due o tre cernitrici tiravano via lo sterile che si buttava direttamente il terra, poi c'era l'operaia che prendeva la qualità “prima” poi un'altra che prendeva la “seconda”. Un'altra il quarzo, e così via fino all'ultima che prendeva la migliore. Bisognava sempre stare attenti, però, perché qualcosa scappava sempre e non si poteva mai fermarsi perché il nastro correva continuamente con sopra il materiale. Era un po' come una catena di montaggio. Mi ricordo che i primi tre mesi a fissare questo nastro che passava davanti con la barite mi veniva la nausea come il mal d'auto: vedevo il nastro fermo e noi sugli sgabelli che ondeggiavamo. Quando arrivavo a casa dovevo vomitare invece di mangiare il pranzo.
Mi spostavo al lavoro in bicicletta prima e poi con la paga di un mese mi sono comperata il motorino “Ciao”. Oppure se c'era la neve e la strada non era ancora fatta, si prendeva la bici in spalla e si andava a piedi in modo che a mezzogiorno si poteva tornare in bicicletta perché nel frattempo avevano pulito la strada.
Ogni sera si finiva verso le 17.30 al suono della sirena e verso le 16.30 a turno una di noi cominciava a raccogliere con il badile lo sterile che era per terra nella stanza e lo buttava in una tramoggia apposita che era a livello del pavimento. Un altro lavoro da fare era quello di spalare la barite macinata che si impastava con l'acqua e andava sparsa all'interno di un capannone ad asciugare e una volta asciutta andava portata in una tramoggia. Non so da dove venisse quella barite, d'altra parte in quegli anni noi eravamo ragazzine e lavoravamo chiuse nella nostra stanza senza sapere quasi niente di come funzionasse il resto dello stabilimento e del perché si facessero certe cose e non altre.

Avevamo soggezione dei capi e in generale degli uomini perché noi eravamo giovani e dovevamo solo lavorare. L'unico giorno in cui incontravamo gli altri operai uomini era il giorno di Santa Barbara durante la festa e noi eravamo sorprese di vedere tanti uomini e sapere che lavoravano vicini a noi ma non li avevamo mai visti. Vedevamo solo Quarenghi il capo dello stabilimento che passava dietro le vetrate a controllare se lavoravamo. Se ci vedeva che parlavamo, ci batteva sui vetri oppure entrava e metteva una marcia più veloce al nastro trasportatore per far passare più in fretta la barite.

Non avevamo praticamente delle protezioni nell'abbigliamento a parte un grembiule di gomma e dei guanti che ci forniva la ditta circa ogni quindici giorni, ma duravano poco e li usavamo fino a che non si consumavano tutte le dita. Comunque, anche i guanti non li avevo nel 1968 ma sono arrivati dopo.
Nel tempo libero si dava una mano in campagna e i nostri ci mandavano in chiesa e tante volte era la scusa per restare fuori la sera altrimenti non si poteva uscire. Ad esempio la domenica c'erano tre messe e nella mia famiglia si doveva andare a tutte: quella della sera era speciale perché dopo si poteva fare un giretto in paese.
 
Intervista effettuata a Storo,  il 16 aprile 2014.

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